giovedì 23 febbraio 2012

Uno strano delirio



Articolo pubblicato sul Corriere del Mezzogiorno 
il  23 febbraio 2012
di Gianfranco Pecchinenda

Un mio caro amico, Ricardo Montero, sostiene che gli esseri umani si possano classificare in due categorie: quelli che dividono gli uomini in due categorie e quelli che non lo fanno. Appartenendo al primo gruppo, egli afferma di conseguenza che anche gli scrittori siano di due tipi: quelli che fanno ricorso a un metodo paradigmatico, o logico-scientifico, e quelli che invece utilizzano una narrazione di tipo letterario. I primi, abbracciano un sistema descrittivo ed esplicativo formale, ricorrono alla categorizzazione e alla concettualizzazione, finendo col produrre teorie, analisi rigorose, argomentazioni e scoperte empiriche che poggiano su ipotesi attentamente ragionate. I secondi generano invece racconti, drammi avvincenti e quadri teorici credibili, sebbene non necessariamente veri. Questi due tipi di scrittori sono irriducibili gli uni agli altri: gli uni hanno a che fare con la verità e la realtà, gli altri con la verosimiglianza e l’esistenza. E quest’ultima non è necessariamente limitata alla verità di ciò che si è effettivamente realizzato, ma – come scrive Milan Kundera – “è riferita al campo delle possibilità umane, di tutto quello che l’uomo può divenire, di tutto quello di cui è capace”.
Evidentemente Ricardo Montero non ignora che già nel 1795, in un suo celebre saggio, Friedrich Schiller aveva anch’egli suddiviso i poeti in base a due tipologie: gli ingenui e i sentimentali. I primi, sarebbero coloro che scrivono in modo quasi inconsapevole, sulla scorta di un impulso istintivo, che non considerano eventuali critiche o conseguenze sociali del loro operare; i secondi, invece, scrivono in modo assolutamente consapevole, attenti ai metodi e alle tecniche da mettere in atto, angosciati dalle possibili conseguenze del prodotto del loro ingegno. I primi si sentono in qualche modo ispirati da un dio, dalla natura stessa o da una qualche entità minore ma non meno straordinaria (un Genio, appunto), mentre i secondi, si ritengono semplicemente geniali (con la g minuscola), ingegnosi, e si preoccupano di mettere tale capacità al servizio della società in cui vivono, e delle conseguenze che il loro agire potrebbe avere sulla realtà in cui operano.
Io, diversamente da Montero, sento però di appartenere più modestamente alla categoria di coloro che preferiscono non dividere gli scrittori in due categorie. Sono fatto così: non riesco a tracciare linee di demarcazione nette, tipologie precise, suddivisioni invalicabili. Amo troppo le sfumature, le incertezze; non riesco a non alimentare ogni mio possibile dubbio. Non nego che le categorie indicate possano essere in qualche modo utili, ma l’essenziale di ogni processo di scrittura, quello che cioè accomuna secondo me tutti coloro che decidono di essere scrittori, è quel sentimento di costante incertezza, quella sorta di indecifrabile sospetto nei confronti della realtà, che produce a sua volta un insopprimibile senso di insoddisfazione. Un sottile sentimento che, se alimentato da un’adeguata conoscenza letteraria, spinge a cercare di aumentare e diversificare le sfere di evasione ereditate dalla propria cultura, inducendo a generare nuove storie, nuovi mondi.
Si tende allora a collocarsi sulla scia dei grandi scrittori, di quei veri e propri maestri cioè che, in un determinato momento della propria esistenza, erano riusciti a meravigliarci, a stupirci: con una storia, un personaggio, o anche con una semplice frase. In fondo ogni vero scrittore cerca sempre di dialogare con i maestri che ammira, con i libri che ama. Ci si fa invadere da essi, li si ingoia, li si digerisce. Li si riproduce. I più bravi copiano, anche, dai propri maestri, perché – come sosteneva Thomas Bernard – solo copiando è possibile essere originali.Chi invece cerca di imitarli, è tristemente destinato a diventare un mediocre (esattamente come accade ad alcuni figli con i propri padri).
Uno dei grandi segreti del processo che spinge verso la scrittura, insomma, sembra essere proprio connesso a questa dinamica: mentre lo scrivere acquieta momentaneamente certe insoddisfazioni, accresce d’altro canto una perversa quanto affascinante forma di stupore: una sensibilità non conformista rispetto all’esistenza, un qualcosa che – piaccia o meno – rende coloro che scrivono più adatti e ricettivi nei confronti dell’infelicità e della malinconia. Una forma di afflizione che tanti grandi studiosi hanno provato in un modo o nell’altro a mettere in relazione al talento narrativo. Come ad esempio ha dichiarato il Nobel per la Letteratura Orhan Pamuk: “per diventare scrittore, pazienza e fatica non bastano: si deve anzitutto sentire l’impulso irresistibile a fuggire la gente, la compagnia, la consuetudine, la quotidianità e a chiudersi in una stanza”.
Chi ha la pretesa di fare lo scrittore, chi vuole essere uno scrittore, deve però anche necessariamente inventarsi “un altro”, un individuo che si assumerà il dovere di scrivere le sue opere. Un altro di cui finirà prima o poi per diventare schiavo. Un altro che vivrà in solitudine le sue angosce, seduto a un tavolino, mentre lui si dovrà preoccupare di fare la spesa, pagare le bollette, gestire la quotidianità.
Come ha scritto da qualche parte Ricardo Montero – ancora lui – la cosa importante per uno scrittore non è tanto ciò che si scrive, i libri, gli articoli o i racconti, ma è quella specie di delirio che, invadendoti, ti porta a parlare da solo e che per certi versi costituisce un’ancora di salvezza: il delirio di credersi uno scrittore. Si tratta di una decisione radicale e assoluta. Chi scrive, dice in sostanza il mio amico Montero, deve diventare un altro. In questo momento l’altro sono io.