lunedì 19 settembre 2011

Democrazia emotiva: Intervista a Marcel Gauchet

Gauchet

«Il modello democratico nato nel dopoguerra è oggi in crisi. Pensavamo che avesse raggiunto l' equilibrio e invece siamo alle prese con problemi sempre nuovi. Se vuole sopravvivere, la democrazia deve sapersi reinventare».

Da molti anni Marcel Gauchet s' interroga sulle forme e i problemi della democrazia, una tematica a cui ha dedicato diversi studi, ultimo dei quali L' avènement de la démocratie, un vasto progetto, il cui terzo volume è arrivato nelle librerie da qualche mese: A l' épreuve des totalitarismes 1914-1974 (Gallimard). Lo studioso francese che insegna all' École des Hautes Études en Sciences Socialese codirige la rivista Le Débat - ricorda che il lungo processo attraverso il quale la democrazia si è affermata in Europa segna la progressiva fuoriuscita dal modello religioso che nei secoli precedenti aveva strutturato la società.

«Tra il XIX e il XX secolo, grazie all' avvento del potere rappresentativo, dell' eguaglianza tra le persone e dell' individualismo, la forma democratica si è sostituita all' organizzazione religiosa della società», spiega Gauchet, che in Italia è noto per Il disincanto del mondo (Einaudi)

«Il potere della monarchia e dell' aristocrazia, le enormi disuguaglianze, l' aspetto tradizionale dell' organizzazione temporale delle società, l' autorità dei modelli del passato, il primato della collettività sull' individuo erano tutti elementi che caratterizzavano l' organizzazione religiosa della società e che le democrazie hanno progressivamente ridimensionato».

In questo processo che ruolo svolgono i fenomeni totalitari della prima metà del Novecento? «La democrazia in cui viviamo ancora oggi è nata dopo la Seconda guerra mondiale proprio come reazione all' esperienza terribile dei totalitarismi, che possono essere letti come il tentativo di ricreare - con i mezzi della politica e all' interno di uno spazio laico - la precedente forma religiosa della società. Il fascismo, il nazismo e il comunismo sono religioni secolari, possiedono una marcata dimensione religiosa, pur presentandosi come movimenti antireligiosi».

Una delle caratteristiche dei totalitarismi è la relazione diretta tra il capo e il suo popolo... «Il potere totalitario s' incarna sempre in una persona, reinventando così il potere sacrale della monarchia. Hitler, Stalin o Mussolini sono la reinvenzione di una figura del passato. Fascismo, nazismo e comunismo sono ideologie, che, per quanto laiche, hanno svolto lo stesso ruolo svolto dal discorso religioso nelle società del passato, investendo ogni ambito della realtà e dando un senso al tutto. Attraverso il partito totalitario, l' ideologia e la figura del capo il totalitarismo cerca di ricreare qualcosa che assomiglia a una comunità organica».

Le democrazie nate alla fine della guerra hanno fatto di tutto per opporsi a tale eredità? «Certo, e al contempo hanno rifondato i vecchi regimi liberali. Le democrazie politiche europee, pur tra molte contraddizioni, sono riuscite a garantire un decisivo progresso rispetto al passato. Si sono ridefinite in tutti gli ambiti, riuscendoa stabilizzare i regimi democratici del dopoguerra. Dalla democrazia formale e astratta d' inizio secolo, si è così passati a una democrazia con contenuti più concreti che ha garantito la ricostruzione politica e economica dell' Europa del dopoguerra».

Questo modello, che ha iniziato a mostrare i primi segni di cedimento alla fine degli anni Settanta, è oggi in crisi? «Sì, e soprattutto in Italia. Le ragioni sono diverse, non ultima la mondializzazione che ha contribuito a rendere inefficaci i meccanismi politico-sociali che avevano consentito il boom economico. L' importanza dei media, la rivoluzione tecnologica e l' affermarsi di un individualismo sempre più marcato hanno rimesso in discussione l' assetto democratico tradizionale, riportandoci a una situazione che, seppure in termini molto diversi, ricorda quella dell' inizio del secolo scorso».

Chi governa sembra spesso impotente di fronte alle derive della mondializzazione. Per questo, c' è addirittura chi parla di governo delle cose... «E' vero, ma è un fenomeno ambiguo, perché non controllare politicamente l' economia è una scelta politica. L' idea che i mercati siano capaci di autoregolarsi, senza che non si possa o non si debba intervenire, è un' ideologia politica che si è imposta negli ultimi decenni dominati dal neoliberalismo. Non sono le cose che hanno preso il potere, siamo noi che l' abbiamo conferito loro. Diciamo spesso che viviamo in un mondo postideologico, dove non ci sarebbero più le ideologie, ma non è vero. Le ideologie ci sono eccome, anche se spesso le loro conseguenze vengono presentate come un dato di natura».

Perché l' immagine degli uomini politici oggi è tanto screditata? «La politica ha perso quel poco d' autorità naturale ereditata dal passato che ancora le restava, perché i politici hanno fatto di tutto per mettersi all' altezza dell' uomo qualunque, inseguendo il senso comune, l' opinione diffusa, puntando sulla comunicazione e sulla seduzione».

Sfruttando la scorciatoia del populismo? «Gli uomini politici vorrebbero far credere che conoscono i problemi della gente, proponendo soluzioni semplificate. L' appello al popolo - che però è una realtà sempre meno omogenea- implica spesso una qualche forma di demagogia. I moderni mezzi di comunicazione che per altro, in passato, hanno fatto benissimo alla democrazia - offrono possibilità infinite ai demagoghi. Dalla demagogia della semplicità a quella dell' emozione, che stimola le reazioni emotive più che il ragionamento».

In Italia, Berlusconi tenta spesso di contrapporre il popolo alle istituzioni... «Accade anche in Francia e in molti altri paesi europei. La retorica populista che oppone l' élite istituzionale al popolo incontra dappertutto un indiscusso successo, perché coglie qualcosa che è effettivamente sentito dalla parte più debole della popolazione, quella che ha meno strumenti per comprendere e intervenire sulla realtà. I populisti fanno appello al risentimento di chi si sente escluso, abbandonato e impoverito. Chi si sente relegato ai piani inferiori della società, senza la possibilità di modificare la propria vita, ha bisogno di credere in un potere capace d' intervenire concretamente. Chi è realmente senza potere sogna un potere forte».

La democrazia sopravviverà alla crisi attuale? «Solo se saprà rigenerarsi, avviando importanti trasformazioni, come quelle che hanno avuto luogo nel dopoguerra. In futuro i modi di governare si trasformeranno radicalmente e le forme della discussione pubblica diventeranno di nuovo centrali. Oggi siamo nella fase della stupefazione di fronte alla crisi. Da qui in poi inizia la fase della reinvenzione, anche se è difficile immaginare quali sarannoi risultati concreti. Un eventuale cambiamento potrà venire solo dai cittadini, i quali però negli ultimi anni hanno spesso preferito ripiegarsi nel privato. D' altronde, proprio l' onda lunga dell' individualismo e della disaffezione alla politica ha molto logorato la democrazia. Oggi, tuttavia, in molti iniziano a rendersi conto che è necessario tornare ad occuparsi dei problemi di tutti. E per questo che si torna alla politica. E questo è un fatto positivo».

Da "La Repubblica", 24 agosto 2011

lunedì 12 settembre 2011

Recensioni

La ritirata della morteRecensione apparsa su IL MATTINO (8/8/2011)


LA RITIRATA DELLA MORTE E I FIGLI DEL DESIDERIO. UN’INDAGINE SULLA CONTEMPORANEITÀ

di Gianfranco Pecchinenda

Cos’è che ha reso così particolare e specifica la società occidentale moderna? Cos’è che le ha conferito quel carattere di assoluta unicità tra tutte le società mai esistite nella storia? A domande del genere, com’è noto, molti studiosi hanno provato a fornire risposte più o meno originali, più o meno complesse. Da quelle che si rifanno a una sorta di determinismo tecnologico, in cui vengono chiamate in causa, quali variabili indipendenti, a seconda dell’epoca, strumenti quali la radio, il cinema o il telefono, piuttosto che la televisione o i nuovi media; oppure a un determinismo opposto in cui vengono ripresi motivi causali più tradizionali come la secolarizzazione e la scomparsa di riferimenti etici più o meno trascendenti, il crollo dei valori familiari, lo sviluppo economico e il consumismo, il conflitto politico, generazionale e così via. Il sociologo francese Paul Yonnet, dal canto suo, in un volume appena tradotto in italiano dal piccolo ma sempre attento ed elegante editore campano Ipermedium libri (Paul Yonnet, La ritirata della morte, pp. 534, euro 25), presenta una tesi particolarmente innovativa ed efficace: ogni tentativo di analisi della modernità occidentale è destinato a restare parziale – egli sostiene – se non si comprende un presupposto divenuto assolutamente universale e sul quale si basa tutta l’organizzazione collettiva di questo tipo di società, a partire dalla costituzione della famiglia fino a giungere alla più complessa delle istituzioni. Tale presupposto è da ricercarsi nel fenomeno epocale da lui definito la ritirata della morte.
Con questa espressione Yonnet intende riferirsi – come sintetizza efficacemente il curatore dell’edizione italiana, Antonio Cavicchia Scalamonti – a quella profonda transizione demografica che ha determinato la quasi scomparsa della mortalità infantile, cui si è affiancata la notevole diminuzione della mortalità dovuta al parto. A partire da questo fenomeno, sostiene Yonnet, tutta una serie di indicatori convergono e spiegano molte delle più originali e inedite caratteristiche dell’attuale società. Si va dalle trasformazioni della struttura e delle funzioni della famiglia, passando per le metamorfosi nella condizione femminile e paterna, all’emergere di una nuova psicologia delle età e dei sessi, alla trasformazione dell’adolescenza, fino allo straordinario riadattamento statistico tra fecondità e mortalità che sta completamento modificando l’antropologia del nostro mondo attuale.
A proposito di quest’ultimo tema, forse il più significativo e problematico tra quelli analizzati in questo prezioso volume, il sociologo francese individua tre stadi della storia della progressiva riduzione della fecondità: il primo, che egli definisce della riduzione attraverso il matrimonio ritardato, avrebbe caratterizzato in particolare la Cristianità medioevale; il secondo – della riduzione nel matrimonio, è quello che ha regolamentato la fecondità fino all’avvento dell’ultimo periodo, quello attuale, in cui la fecondità viene controllata grazie alle tecniche contraccettive e all’aborto, dando vita – tra le conseguenze principali – all’emergere di una nuova tipologia di individuo, unica e assolutamente inedita: il figlio desiderato.
In estrema sintesi, se la finalità dell’istituzione-famiglia era un tempo quella di provvedere alla realizzazione di un equilibrato ricambio generazionale, oggi la sua funzione è completamente diversa: la riproduzione cambia senso, non è più un obbligo sociale e il figlio diventa quasi solo ed esclusivamente un “figlio desiderato”, ovvero voluto e programmato in modo molto razionale. Su di lui si investe, e tale investimento rappresenta un chiaro indicatore di un diverso orientamento psicologico della famiglia. Se a questo fenomeno aggiungiamo quelli già accennati – e che Yonnet descrive facendo riferimento a un ricco insieme di dati, tra cui, non ultimo, l’allungamento della vita media – ecco emergere ulteriori significative trasformazioni, come ad esempio l’impressionante concentrazione statistica della morte nelle età avanzate e la conseguente completa ridefinizione delle età della vita. Il culto della gioventù – frutto maturo di questi nuovi orientamenti – si sposa con la nuova costruzione temporale in cui il futuro fa oramai agio sul passato, l’autorità e il prestigio degli anziani seguono la generale valorizzazione della tradizione, e la gioventù, intesa come proiezione nel futuro e anche come periodo di formazione e preparazione per l’esistenza, viene sostanzialmente mitizzata e presa a modello anche dagli stessi anziani.
Una delle conseguenze più sconcertanti dell’intero processo sembra essere in conclusione l’emergere di nuove generazioni che si sentono sempre più legittimate a coltivare una perenne immaturità, accompagnata da un delirante sentimento di immortalità. “Il figlio è allevato come un immortale in un mondo di immortali” – chiosa Yonnet – e dietro questa negazione della morte si rivelano però, assumendo forme sempre più preoccupanti, atteggiamenti che tradiscono tutta la loro acerbità, quali l’esaltazione per il benessere fisico e il terrore per ogni forma di malattia, il consumo ossessivo di morte negli spettacoli televisivi sia di fiction che di informazione, così come molti dei comportamenti al limite della patologia legati ai videogiochi e al gioco d’azzardo, al consumo di alcol e di droghe, alla paura talvolta anche maniacale di essere lasciati soli o di non essere sufficientemente, appunto, desiderati.